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Riscaldamento globale: com’è stato scoperto?

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Quando parliamo di riscaldamento globale ci riferiamo alla variazione climatica che è iniziata alla fine del XIX secolo. In generale, questa variazione è caratterizzata da un aumento della temperatura media terrestre. Di conseguenza, si generano fenomeni atmosferici anomali che riguardano la circolazione delle masse d’aria, il ciclo dell’acqua o l’equilibrio naturale degli oceani.

Dai gas serra al cambiamento climatico

La crescente emissione di gas serra nell’atmosfera terrestre produce uno sbilanciamento dei flussi energetici che entrano ed escono dalla superficie terrestre. Poiché l’aumento della concentrazione dei gas serra induce un aumento della temperatura della superficie terrestre e della troposfera, si parla comunemente di riscaldamento globale. Gli effetti di questa alterazione sono sempre più gravi ed evidenti. Siccità, aumento del livello degli oceani, ondate di caldo o di freddo, scioglimento dei ghiacciai, acidificazione degli oceani ed eventi estremi sono solo alcuni degli esempi che dimostrano un cambiamento climatico in atto.

Lo studio dell’effetto serra

L’effetto serra terrestre è noto sin da quando sono state gettate le basi della termodinamica da Sadi Carnot nel 1824, che offrirono un nuovo modo di vedere l’Universo, dal punto di vista termico. Ben presto, grazie a studi successivi, si capì che la complessa fisica dell’atmosfera e del ciclo idrologico poteva essere condizionata dalle attività umane. Nel 1896 Svante August Arrhenius, premio Nobel per la Chimica nel 1903, comprese il meccanismo che sta alla base dell’equilibrio termico dell’atmosfera. Fu lui a descrivere quantitativamente il ruolo dell’anidride carbonica e del vapore acqueo nell’effetto serra. Riuscì anche a calcolare che, raddoppiando la concentrazione di CO2, la temperatura media sarebbe aumentata di circa 4°C.

Fonte: Pixabay

La consapevolezza di un riscaldamento globale

Quello che Arrhenius non aveva immaginato era che la produzione umana e lo sfruttamento dei combustibili fossili sarebbero cresciuti al punto tale che l’aumento di temperatura, previsto nel corso dei millenni, sarebbe avvenuto in molto meno tempo. Fu all’inizio del Novecento che ci si rese conto di una situazione anomala, come conferma anche un articolo dell’epoca di cui abbiamo parlato qui. Nel 1931 gli studi di Arrhenius furono confermati da un fisico americano, Edward Olson Hulburt. All’epoca però il mondo scientifico non era convinto a pieno, perché le variazioni di CO2 in atmosfera erano ritenute trascurabili. Si riteneva anche che le emissioni fossero facilmente compensabili dai meccanismi naturali di assorbimento da parte degli oceani e delle nubi.

Il punto di svolta

Durante la Guerra Fredda iniziarono le ricerche militari statunitensi sulla propagazione della radiazione infrarossa in atmosfera per scopi di comunicazione. Nel frattempo alcuni studi erano riusciti a dimostrare il ruolo dell’uomo nell’equilibrio climatico. Gli studiosi si erano resi conto che la concentrazione di CO2 stava aumentando talmente in fretta che per compensarla con i meccanismi naturali ci sarebbero voluti millenni. Grazie a questi studi si comprese che l’aumento delle emissioni avrebbe alterato il bilancio energetico del pianeta. Poiché gli oceani sarebbero stati in grado di assorbire solo una piccola parte dei gas serra emessi, venne stimato che negli anni successivi la situazione sarebbe peggiorata in maniera costante. 

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Gli sviluppi successivi

Negli anni ’50 gli scienziati iniziarono a convincersi del legame tra CO2 e clima. Il chimico e fisico Hans Suess, che aveva collaborato allo sviluppo della bomba atomica, condusse uno studio approfondito sugli isotopi del carbonio, in grado di diluirsi nei materiali organici. La sua ricerca portò a dimostrare la presenza di carbonio di origine fossile nell’atmosfera. In seguito Suess condusse uno studio in collaborazione con Roger Revelle, oceanografo direttore della Scripps Institution of Oceanography in California. Studiando il fenomeno di dissoluzione della CO2 all’interno degli oceani, confermarono che solo una minima parte delle emissioni di origine fossile sarebbe stata assorbita dalle acque, ma con un processo della durata di millenni. In un suo articolo, Revelle scrisse:

“L’umanità sta compiendo un esperimento geofisico su vasta scala di un tipo che non può essere avvenuto in passato e non potrà essere riprodotto in futuro”.

Curiosità o allarme?

Gli studi di Revelle innescarono diverse reazioni nel mondo scientifico. Egli si rese conto dell’importanza di monitorare i livelli di CO2 in atmosfera, ma la finalità non era climatica, bensì legata all’agricoltura o a studi geochimici. I calcoli effettuati negli anni ’60 mostravano che, con l’accumulo di CO2, la temperatura sarebbe aumentata. Ma i modelli erano preliminari e, vedendo il XXI secolo come una realtà lontana, mancava una consapevolezza sulla futura crisi climatica. Solo dopo il 1973 arrivarono fondi regolari da parte del NOAA che permisero un’osservazione continua dei livelli di CO2 in atmosfera, parallelamente all’ascesa di una coscienza ambientalista nell’opinione pubblica. La curiosità scientifica per il riscaldamento globale allora si trasformò in una preoccupazione. Il riscaldamento globale iniziò a destare perplessità e gli scienziati iniziarono ad analizzarne i possibili impatti. La questione dell’inquinamento ambientale stava diventando importante in tutto il mondo.

Nasce l’interesse per il clima

Negli anni successivi sia il mondo scientifico che quello politico presero coscienza dei drammatici effetti che si sarebbero verificati. Nel 1978 la World Meteorological Organization e l”International Council for Science organizzarono a Vienna il primo incontro dedicato alle conoscenze relative al clima. Da quell’evento questi appuntamenti divennero regolari, perché era ormai chiaro che il cambiamento climatico avrebbe interessato l’intero pianeta e si sarebbe esteso su un lungo periodo. La consapevolezza del legame tra uomo e ambiente crebbe anche grazie alla scoperta del meccanismo di distruzione dell’ozono stratosferico causato dall’utilizzo dei CFC nelle applicazioni industriali. Finalmente nel 1988, dopo una conferenza sul cambiamento climatico a Toronto, venne istituito l’IPCC, Intergovernmental Panel on Climate Change, un organo delle Nazioni Unite. Il suo compito principale è quello di raccogliere tutte le informazioni sul clima per elaborare dei rapporti di sintesi periodici.

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Gli incontri e gli accordi per il clima

Dal 1995 sono iniziate le Conferenze delle Parti (COP), l’ultima delle quali, la COP27, si è conclusa proprio pochi giorni fa. Anche grazie ai rapporti dell’IPCC, si capì l’urgenza di stabilire degli obiettivi di riduzione delle emissioni, per limitare il riscaldamento globale. Nel 1997 venne firmato il Protocollo di Kyoto, entrato poi in vigore nel 2005, che vincolava i Paesi partecipanti a rispettare definiti obiettivi di riduzione delle emissioni. Un altro evento storico è stato l’Accordo di Parigi del 2012, che ha definito un piano d’azione globale, con lo scopo di mettere il mondo sulla buona strada per evitare cambiamenti climatici pericolosi. Tra gli obiettivi principali c’è quello di mantenere l’aumento medio della temperatura mondiale ben al di sotto di 2°C rispetto ai livelli preindustriali. Ma occorre puntare a limitare l’aumento a 1,5°C, perché ciò ridurrebbe in misura significativa i rischi e gli impatti del cambiamento climatico. 

Il riscaldamento globale oggi

A partire dal 2008 l’Unione Europea ha adottato una strategia integrata in materia di energia e cambiamento climatico. Lo scopo è indirizzare l’Europa sulla strada verso uno sviluppo sostenibile sviluppando un’economia a basse emissioni di CO2 improntata all’efficienza energetica. L’obiettivo a lungo termine, parte del Green Deal europeo, è la net zero, ovvero il raggiungimento di emissioni nette nulle nel 2050. Oggi, che stiamo vivendo periodi di caldo estremo e di eventi climatici sempre più drammatici, sappiamo che gli scenari previsti stanno effettivamente diventando una realtà. Gli esperti mondiali hanno spiegato che è arrivato il momento di agire. Abbiamo ritardato l’azione per così tanto tempo che ora potremmo evitare gravi danni solo se le emissioni iniziassero a precipitare.