Il buco dell’ozono, che ha suscitato non poche preoccupazioni in ambito internazionale a partire dagli anni ’80, presto si chiuderà. Lo annuncia un Rapporto dell’ONU, secondo cui le azioni politiche globali per l’eliminazione dei gas responsabili dell’assottigliamento dello strato di ozono finalmente danno i frutti sperati. A partire dal 2040 i livelli dell’ozono torneranno a essere quelli normali, che c’erano prima del 1980. E nel 2066 il buco dell’ozono si chiuderà del tutto.
Iniziamo con il capire perché è nata la famosa questione del “buco dell’ozono”. Innanzitutto sarebbe più corretto parlare di assottigliamento dello strato di ozono, perché nella stratosfera in realtà non esiste nessun “buco” visibile. Quello che si è iniziato a indicare con questo termine gia dagli anni ’80 è un’anomalia nei livelli di questo gas, soprattutto nella regione Antartica. Le concentrazioni di ozono nel tempo sono diminuite rispetto a quelle considerate normali. Nella stratosfera l’ozono esiste naturalmente e anzi sarebbe un problema se non ci fosse. Questo gas, che è costituito da tre atomi di ossigeno, ha un ruolo fondamentale per la vita sulla Terra. A causa delle attività umane, e in particolare dell’eccessivo rilascio di alcune sostanze capaci di distruggere le molecole di ozono, la sua concentrazione ha iniziato a ridursi. Questo ha scatenato un allarme a livello mondiale e ha spinto i governi internazionali a prendere decisioni drastiche per risolvere il problema.
Come abbiamo detto, l’ozono è un gas naturalmente presente nella nostra atmosfera. Si trova per circa il 10% nella troposfera, ovvero lo strato atmosferico più basso, che si estende fino a 10 – 12 km di quota, e per il 90% nella stratosfera, lo strato che segue la troposfera. Non ha lo stesso ruolo nei due strati. Nella troposfera, l’ozono è un gas dannoso che contribuisce alla formazione dello smog. L’ozono stratosferico invece, a cui si riferisce il problema del “buco”, ha un ruolo protettivo per la vita. La sua massima concentrazione è nella parte bassa della stratosfera, tra i 15 e i 35 km di quota, zona che appunto è anche chiamata ozonosfera o strato di ozono. Quando parliamo di buco dell’ozono ci riferiamo alla riduzione della concentrazione di ozono nelle regioni polari, che è un assottigliamento più intenso rispetto al calo graduale che si è osservato a livello globale a partire dall’inizio degli anni ’80.
Facciamo un passo indietro e partiamo dal fatto che il sole emette radiazioni per effetto delle reazioni di fusione nucleare che avvengono al suo interno. Queste radiazioni elettromagnetiche coprono un ampio spettro di frequenze. Il picco massimo della radiazione è nel campo del visibile, ma quote minori sono nel campo dell’ultravioletto e dell’infrarosso. Di queste tre “porzioni” dello spettro, quella più critica è l’ultravioletto. I raggi ultravioletti vengono divisi in tre bande, distinte per le lunghezze d’onda. Gli UV-C sono i raggi con lunghezze d’onda comprese tra 200 e 280 nm, gli UV-B tra i 280 e i 320 nm e infine gli UV-A tra i 320 e i 400 nm. A più basse lunghezze d’onda corrispondono più alte frequenze, cioè elevata energia: gli UV-C sono in assoluto i raggi più pericolosi per la salute umana e degli ecosistemi. Ma qual è il legame con l’ozono? L’ozono è una molecola che assorbe le radiazioni UV-C e in buona parte quelle UV-B. Grazie all’ozono, queste radiazioni nocive non possono raggiungere la superficie terrestre. Gli UV-A invece riescono a passare attraverso la fascia di ozono e arrivare sulla Terra, ma ciò non è un problema perché essendo meno energetici, non sono dannosi.
Una minore concentrazione dello strato di ozono comporta quindi una più ridotta capacità di filtrare la radiazione ultravioletta. Questa radiazione, se arriva sulla Terra, è in grado di arrecare diversi danni agli esseri viventi. Gli effetti delle esposizioni a quantità minime non sono rilevanti, ma se l’esposizione è prolungata si registrano danni come:
I meccanismi di distruzione dell’ozono sono diversi a seconda che si consideri il fenomeno generale di assottigliamento della fascia dell’ozono o quello che si manifesta nelle regioni polari, più accentuato nella regione antartica.
La concentrazione di ozono si misura con un’unità detta dobson. Un dobson è la quantità di
ozono che, se distribuita uniformemente sulla superficie terrestre a pressione atmosferica e
alla temperatura di 0°C, formerebbe uno strato di 0,01 mm di spessore. La concentrazione naturale dell’ozono mostra piccole variazioni, dell’ordine del 10-20% su base stagionale. Questo dipende dalla latitudine, dal periodo dell’anno e da fluttuazioni giornaliere. L’ozono è prodotto con maggiore intensità
nelle regioni equatoriali, ma è poi spinto dai venti stratosferici verso le latitudini maggiori. Negli anni ’80 è stata misurata per la prima volta una sostanziale riduzione della concentrazione di ozono nella regione sopra il Polo Sud. Questo è il fenomeno conosciuto come “buco dell’ozono”, che avviene a quote tra i 15 e i 20 km, quindi nella bassa stratosfera. Esiste un ciclo naturale di formazione e distruzione dell’ozono nelle regioni polari: il “buco” compare alla fine di agosto e tende a scomparire alla fine di novembre. Ma ciò che si osservò ormai quarant’anni fa fu una riduzione maggiore e non spiegabile con i soli meccanismi naturali.
Firmato nel 1987, il Protocollo di Montreal è un trattato internazionale in cui i Paesi firmatari si sono impegnati a cessare la produzione e il consumo di clorofluorocarburi (CFC) entro una certa scadenza. Sono questi i gas che interferiscono con il ciclo naturale di formazione e distruzione dell’ozono, causando il calo dei livelli di ozono rispetto ai valori naturali. Il Protocollo è attivo dal 1 gennaio 1989, e nel tempo è stato soggetto a diversi emendamenti. La versione attuale prevede il bando delle sostanze responsabili della distruzione dell’ozono con scadenze diverse che variano in base al tipo di composto e ai Paesi, distinti in “sviluppati” e “in via di sviluppo”. Il primo gruppo di composti banditi comprende i CFC, commercializzati dagli anni ’30 e impiegati principalmente come fluidi refrigeranti nei cicli frigoriferi. Ma venivano usati anche per gli estintori, come solventi per l’industria chimica o nelle bombolette spray. Queste sostanze sono dannose non solo per l’ozono ma anche perché sono gas serra. Nel tempo quindi l’obiettivo è stato trovare fluidi alternativi per ridurre l’impatto.
Il Protocollo di Montreal ha preso in considerazione, oltre ai CFC, altre categorie di composti alogenati che contengono carbonio per un totale di circa cento sostanze. Le principali sono:
In Europa attualmente risultano banditi i CFC e gli HCFC dal 1 gennaio 2015. In alternativa a questi composti, sono attualmente usati gli idrofluorocarburi (HFC) o i perfluorocarburi (FC), che hanno un potenziale di distruzione dell’ozono trascurabile, anche se sono gas serra. Anche gli idrocarburi sono usati come alternative, ma presentano problemi nel campo della sicurezza, perché sono gas infiammabili.
L’effetto del Protocollo di Montreal non è stato immediatamente visibile, perché i composti come i CFC e gli HCFC hanno tempi di permanenza molto lunghi nell’atmosfera. Quindi, anche se abbiamo smesso di produrre queste sostanze, ci vorranno decenni prima che questi scompaiano dall’atmosfera. Dal 2019 al 2020 si è registrata un’anomalia di riduzione che ha superato i 25 milioni di chilometri quadrati nello strato di ozono terrestre. Quindi il buco dell’ozono non si sta chiudendo? In realtà l’anomalia è stata spiegata dalla comunità scientifica con particolari condizioni meterolorologiche nella parte superiore della stratosfera. I dati però confermano che le misure internazionali stanno funzionando e che siamo sulla buona strada. Molte nazioni si sono impegnate per eliminare gradualmente le sostanze chimiche coinvolte nella distruzione dell’ozono. Secondo gli scienziati, oggi il 99% delle sostanze vietate dal Protocollo di Montreal sono definitivamente eliminate.
Ecco quindi che arriviamo alle buone notizie. L’ultimo rapporto dell’ONU afferma che se gli sforzi attuali saranno mantenuti, l’ozono tornerà ai livelli che c’erano prima del 1980, ovvero prima del “buco dell’ozono”. Quando succederà? Già dal 2040 otterremo il risultato per le medie latitudini, mentre dovremo aspettare il 2045 per l’Artico e il 2066 per l’Antartide. Questo vuol dire che già tra soli 17 anni nella maggior parte del pianeta avremo uno strato di ozono integro e completamente ricostituito. In atmosfera ci sono ancora sostanze bandite che esercitano i loro effetti dannosi, ma la loro presenza sta diminuendo in modo graduale e costante. Resta però ancora da chiarire quale sia l’origine di alcune sostanze presenti in atmosfera, tra cui CFC-13, 112a, 113a, 114a, 115, CCI4 e HCF-23. Probabilmente queste dipendono da sottoprodotti che finora non sono stati regolati.
Il successo che abbiamo ottenuto a livello internazionale con il Protocollo di Montreal ci dimostra che i danni possono essere riparati. Con la cooperazione e gli sforzi globali tutte le sfide ambientali e non solo possono essere affrontate e superate. Ecco perché questa buona notizia per il buco dell’ozono deve spingere la linea politica mondiale anche per altre situazioni allarmanti come il riscadamento globale. Quando è stato presentato il rapporto dell’ONU il segretario generale dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale, Petteri Taalas, ha commentato
«L’azione sull’ozono costituisce un precedente per l’azione sul clima. Il nostro successo nell’eliminare gradualmente le sostanze chimiche che consumano ozono ci mostra cosa si può e si deve fare con urgenza per abbandonare i combustibili fossili, ridurre i gas serra e quindi limitare l’aumento della temperatura».
La messa al bando delle sostanze che distruggono l’ozono ha avuto un secondo effetto positivo. Essendo gas serra, la mancata emissione ha evitato che la situazione del riscaldamento globale peggiorasse. Sempre secondo il rapporto dell’ONU, al 2050 risulterà evitato un riscaldamento di 0,5-1 °C mentre al 2100 un riscaldamento di 0,3-0,5 °C.
A differenza delle azioni per l’inquinamento o il clima, il Protocollo di Montreal ha coinvolto praticamente tutto il mondo. Per questo David Fahey, della National Oceanic and Atmospheric Administration, lo ha definito “il trattato ambientale di maggior successo nella storia”. Deve essere uno stimolo per i Paesi per continuare la lotta e non fermarsi. La sostituzione dei CFC con altri prodotti non risolve comunque il problema dell’effetto serra. Infatti è stata necessaria un’ ulteriore iniziativa, l’Accordo di Kigali, stipulato nel 2016 ed entrato in vigore il 1 gennaio 2019. Si tratta di un aggiornamento del Protocollo di Montreal che si concentra sugli HFC per ridurne la produzione e il consumo in quanto gas serra. Ecco perché l’ONU avverte che questo risultato non vuol dire aver risolto definitivamente il problema e che continueranno a essere necessari continui monitoraggi e aggiornamenti.
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