Il sud Italia è visto da tempo come lo zoccolo duro che rallenta la crescita economica e il progresso tecnologico del paese. In realtà, contrariamente a questa credenza diffusa, è tra le regioni più virtuose al mondo in termini di produzione di energia da fonte rinnovabile. Gli impianti di produzione da fotovoltaico, solare termico ed eolico sono innumerevoli e permettono all’Italia di essere un punto di riferimento mondiale nell’ingegnerizzazione delle suddette tecnologie. Ma la transizione energetica passa anche per lo sfruttamento delle risorse geologiche di idrocarburi leggeri e del petrolio. Questi hanno subito una trasformazione nell’essenza. Non sono più una fonte di guadagno fine a sé stessa ma il mezzo che permette di finanziare interventi per uno sviluppo economico incentrato sulla green economy.
In Basilicata c’è la più grande riserva di idrocarburi on-shore dell’Europa occidentale. Sono migliaia i barili di greggio estratti al giorno dall’impianto di Tempa Rossa, gestito dalla francese Total. Centinaia di migliaia i metri cubi di metano e migliaia i barili di petrolio equivalenti di Gpl. Sul sito della regione Basilicata è presente un contatore aggiornato quotidianamente dove è possibile leggere le estrazioni giornaliere e quelle cumulative a partire dal 1° gennaio 2021. Quando l’impianto è a pieno regime i barili di petrolio greggio viaggiano intorno ai 40 mila al giorno, che si traduce in oltre 6 milioni e 300 mila litri di greggio.
Le estrazioni dall’impianto della Val d’Agri, gestito al 60,77% da Eni e al 39,23% dall’olandese Shell, sono superiori a quelle di Tempa Rossa. Oscillano tra i 50 e i 70 mila barili di petrolio greggio al giorno. Il centro oli Val d’Agri è attivo dal 2001 ed estrae idrocarburi da 24 pozzi scavati nell’entroterra lucano. Gli idrocarburi estratti da entrambi gli impianti vengono semilavorati nella zona industriale di Viggiano e inviati poi alla raffineria di Taranto che li processa ulteriormente.
Il rinnovo delle concessioni minerarie dell’area della Val d’Agri ad Eni è pronto e prevede un accordo faraonico tra la regione Basilicata ed Eni. La cifra nuda e cruda è di 2 miliardi di euro in dieci anni. Ma come si arriva a tale somma? L’accordo prevede un compenso tra i 120 e i 140 milioni per le royalty di greggio, metano e Gpl. Le royalty è quanto deve corrispondere il privato, che si occupa dell’estrazione mineraria, allo stato, che gli cede in concessione il sito di interesse. A queste royalty vanno poi sommate delle compensazioni aggiuntive concordate tra la regione Basilicata ed Eni che porta a un ammontare totale annuo di circa 200 milioni. Ecco che infine si arriva ai 2 miliardi di euro, spalmati in dieci anni, in ingresso alle casse della regione e dei comuni direttamente coinvolti. I nuovi accordi risultano essere molto più onerosi rispetto a quelli scaduti ad ottobre 2019, siglati all’inizio del nuovo millennio.
Sul sito della regione Basilicata si può leggere che il protocollo siglato “attiva le iniziative più opportune allo scopo di favorire i processi di sviluppo del settore produttivo nel territorio regionale per il mantenimento e l’implementazione dei livelli occupazionali e lo sviluppo socioeconomico della Regione puntando ad incentivare una duratura ripresa delle attività economiche”. E che ancora le misure compensative saranno volte a finanziare strategie di transizione energetica, ponendovi sempre al centro la tutela della salute umana e la valorizzazione del territorio.
Dunque, la Basilicata abbraccia il modello norvegese, che tra le prime nazioni al mondo ha avviato il programma di transizione energetica ma finanziandolo con l’esportazione dei prodotti dell’industria petrolifera. Gli idrocarburi non sono più gli attori di un ciclo produttivo chiuso su sé stesso ma il mezzo per raggiungere un regime più sostenibile. Certamente la Norvegia rimane ancora un puntino lontano ma la strada imboccata è senza dubbio quella giusta.
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