Lo strato di ozono è spesso chiamato la “protezione solare naturale della Terra”. Infatti esso filtra dalla luce solare i raggi ultravioletti dannosi prima che possano raggiungere la superficie del pianeta. Perciò la comparsa del cosiddetto “buco nell’ozono” ha rappresentato un’importante crisi ambientale. Nonostante la messa al bando dei composti in grado di distruggere l’ozono, di recente sono state scoperte tre nuove sostanze pericolose.
Esistono meccanismi naturali di formazione e distruzione dell’ozono che avvengono nella stratosfera. Nel complesso, la concentrazione di ozono non varia nel tempo perché le velocità di questi processi si uguagliano. Si dice quindi che la sostanza rimane in uno stato stazionario, in una concentrazione sufficiente a svolgere il suo ruolo protettivo. Il problema è che in determinate condizioni possono liberarsi specie chimiche in grado di catalizzare le reazioni di distruzione. Dagli anni ’80 la concentrazione di questi catalizzatori in atmosfera è aumentata a causa delle attività umane. Con il Protocollo di Montreal (1987) la produzione di tutti i composti che causano la riduzione dell’ozono è destinata a cessare entro il 2040. I composti più dannosi sono quelli contenenti Bromo e Cloro, i catalizzatori più efficaci. Nelle applicazioni si stanno man mano sostituendo con fluidi alternativi che non alterino la concentrazione di ozono.
Le misure adottate per proteggere l’ozono hanno determinato buoni risultati. Ma di recente sono stati individuati tre composti definiti “sconcertanti” perché le loro concentrazioni sono in aumento. Un gruppo di ricercatori di Dübendorf ha analizzato campioni di aria provenienti da diverse zone del mondo. Ed ha individuato tre idrofluorocarburi (HCFC) mai trovati prima. Si tratta di HCFC-132b, HCFC-133a e HCFC-31. Gli HCFC sono specie chimiche piuttosto reattive, perciò è probabile che migrando nell’atmosfera diano luogo a sostanze innocue. Tuttavia, una parte di essi non reagisce e giunge fino alla quota in cui si trova l’ozono. Qui sono in grado di liberare radicali cloro, che attacca direttamente la molecola di ozono, decomponendola. Si comportano quindi come i CFC, anche se con una minore efficienza.
Ciò che preoccupa è che delle sostanze individuate non si conoscono utilizzi industriali. Si pensa perciò che siano dei sottoprodotti di processi chimici.
L’HCFC-132b è apparso per la prima volta circa due decenni fa. Da allora, i suoi livelli di concentrazione sono aumentati. Analizzando i diversi campioni, si è visto che l’origine è nell’Asia orientale. Gli altri due HCFC invece mostrano livelli di concentrazione oscillanti nel tempo. Sono state rilevate emissioni di HCFC-132b e HCFC-133a anche nel sud-est della Francia, che sono cessate nel 2017. Questo è stato attribuito alla chiusura di un impianto di produzione di fluorocarburi proprio in quell’anno.
Se la concentrazione di ozono diminuisce, aumenta la penetrazione di raggi UV-B e UV-C sulla Terra. Questo implica maggiori rischi di patologie anche molto gravi. Ma l’essere umano non è l’unico ad essere in pericolo. L’aumento della radiazione UV-B può interferire con l’ efficienza della fotosintesi. Anche tutti gli organismi che vivono nei primi cinque metri al di sotto delle acque sono considerati a rischio. L’identificazione precoce delle emissioni nocive può aiutare nello sviluppo di una linea politica ambientale efficace. È importante che questo avvenga a livello globale e non solo locale. La circolazione delle correnti di aria infatti mette a rischio anche le zone vicine a quella in cui avviene l’emissione. In ambito industriale, è possibile mettere in atto e gestire pratiche per ridurre l’impatto prima che si producano seri danni.
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