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L’importanza dei fluidi termovettori negli impianti solari

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Di recente, il solare termodinamico (o Concentrating Solar Power) sta guadagnando sempre più spazio nella conversazione energetica. Ciò riguarda anche l’Italia, dove dopo una serie di alti e bassi sembra che al CSP sarà data un’altra possibilità grazie ad ENEA. Alcuni degli elementi operativi fondamentali del CSP sono i fluidi termovettori, o HTF (Heat Transfer Fluid), di cui discuteremo in questo articolo.

Impianti a concentrazione solare

Il funzionamento generale della tecnologia CSP sfrutta un campo di specchi (eliostati) che concentra la radiazione solare incidente su un ricevitore, all’interno del quale scorre l’HTF. Esso assorbe il calore ed è usato per potenziare un ciclo termodinamico, tipicamente Rankine.

Diversi sono i parametri e le configurazioni possibili:

Il fluido può essere in configurazione diretta, se l’HTF è anche il fluido termovettore che circola nel ciclo termodinamico, o indiretta se i due sono separati e lo scambio termico avviene in uno scambiatore di calore primario.

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Altra caratteristica fondamentale è la presenza di serbatoi di accumulo, in cui l’HTF può essere stoccato come riserva di energia termica per potenziare il ciclo anche nelle ore di assenza del sole. Di nuovo, il fluido stoccato può essere lo stesso HTF o un altro a seconda delle caratteristiche di impianto. Va sottolineato che lo stoccaggio è di solito opzione presente, perché da esso derivano i vantaggi di flessibilità del CSP, che lo rendono una tecnologia potenzialmente competitiva.

I fluidi termovettori nel CSP

Concentrando l’analisi sugli HTF, essi dettano le condizioni di funzionamento dell’impianto in base alla temperatura di ingresso e uscita dal campo solare. Le caratteristiche che un HTF dovrebbe avere sono:

  • Possibilità di raggiungere temperature più elevate possibili, per consentire migliori prestazioni al ciclo termodinamico;
  • Basso punto di congelamento, per evitare che il fluido solidifichi nelle tubature;
  • Bassa viscosità, per minimizzare le perdite;
  • Essere atossico e quanto più economico possibile.

Gli HTF utilizzati soddisfano parzialmente e in maniera diversa tali criteri, pertanto sono usati nei vari tipi di impianti CSP a seconda della migliore compatibilità. Vediamo ora le tre tipologie di HTF presenti negli impianti attualmente operativi.

Acqua/Vapore

I vantaggi dell’acqua risiedono nel basso costo e nell’atossicità. L’impianto è tipicamente in configurazione diretta. Se da un lato ciò è un bene, dato l’alto livello di sviluppo per cicli termodinamici a vapore acqueo, dall’altro gli ingombri, e quindi i costi, aumentano grandemente. Inoltre, l’acqua come HTF presenta tre problemi importanti. Il primo è l’impossibilità di stoccaggio diretto, almeno in maniera conveniente, per cui si è costretti a ricorrere ad altri fluidi, quindi ad altri scambiatori di calore. Vi è poi la difficoltà nell’operare ad elevate temperature e pressioni, caratteristica fondamentale nello sviluppo della tecnologia CSP. Infine, la complessità del controllo dei transitori termici.

Tra gli impianti ad oggi esistenti, la centrale Ivanpah  in California, è costituita da una torre solare e un power block a vapore acqueo in configurazione diretta, in grado di generare 377 MW di potenza nominale netta.

Oli sintetici

Esiste un’ampia gamma di oli sentitici, principalmente idrocarburici, che possono essere sia termici che diatermici. Un esempio è il Therminol VP-1, una miscela eutettica di bifenile ed ossido di bifenile (DPO), che presenta tra i fluidi della propria categoria un’ottima stabilità termica. Il vantaggio degli oli sull’acqua è la capacità di reggere ad elevate pressioni. Altri punti a favore sono le basse temperature di congelamento (13°C per il Therminol VP-1) e viscosità.

Tuttavia, il grande limite degli oli è nella loro degradabilità a temperature prossime ai 400°C, che non consentono di sfruttare a pieno il potenziale della concentrazione solare.

Gli oli sintetici trovano ampia applicazione come HTF indiretto negli impianti lineari a collettori parabolici o Fresnel, principalmente in virtù del basso punto di congelamento, che costituisce invece un limite per l’uso dei sali fusi in questo tipo di impianto. Le temperature di ingresso e uscita dal campo solare sono in genere fissate a 290°C e 390°C rispettivamente.

Gli impianti spagnoli Extresol-1, Extresol-2 ed Extresol-3, da 50 MW nominali l’uno, utilizzano questo tipo di configurazione.

Sali fusi

I sali fusi sono i più adatti alle alte temperature tra gli HTF commerciali. Questa caratteristica li rende i fluidi termovettori che meglio si sposano con gli impianti a torre solare, in cui l’alto rapporto di concentrazione consente di raggiungere temperature operative considerevoli. I sali fusi più comuni, detti anche solar salt, sono una miscela 60% NaNO3 – 40% KNO3 che raggiunge temperature superiori ai 550°C. Questi sono anche economici rispetto agli oli sintetici, e sono preferibili come fluido di stoccaggio. Presentano però punti di congelamento più alti, per cui serve una maggiore attenzione per far sì che i sali non solidifichino nelle tubature. Per lo stesso motivo, queste devono essere svuotate durante le ore notturne.

Centrali che utilizzano i sali fusi sono la Gemasolar Thermosolar Plant di Siviglia (19.9 MW per 15 ore di stoccaggio) e l’italiana Archimede (4,72 MW per 8 ore di stoccaggio). Infine, è da nominare il progetto Aurora Solar Energy, che diventerà operativo entro metà 2021, a causa di ritardi rispetto al previsto 2020.

I prossimi fluidi termovettori

L’obiettivo per le prossime generazioni di HTF sarà raggiungere temperature maggiori nella maniera più conveniente possibile per l’impianto. Molte sono le alternative sotto esame.

Il sodio è buon candidato per range di temperatura e alta conduttività termica, ma presenta problemi a causa della sua natura altamente reattiva.

I sali fusi continuano ad essere i fluidi più promettenti, e si cerca di migliorarne le prestazioni e risolverne le diverse problematiche. Ad esempio, la corrosione delle superfici metalliche, causata principalmente dall’ossigeno presente nei nitrati, spinge oggi la ricerca verso sali che non lo presentano tra i componenti.

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Una grande sfida, infine, è quella dei ricevitori a particelle solide (PHR), in cui teoricamente si potrebbero raggiungere temperature sui 1000°C. I problemi da abbattere in questo caso sono l’efficienza termica del ricevitore, l’individuazione di materiali, adatti ad essere fluidi termovettori, che resistano a tali carichi termici e il contenimento dei costi.

Articolo a cura di Andrea NEVI