Articolo a cura di Giovanna PALLOTTA
Cos’hanno in comune sostenibilità alimentare e tradizione? A volte molto poco, tant’è che cambiare qualcosa di profondamente radicato nella cultura popolare potrebbe sembrare, almeno agli occhi dei più romantici, un azzardo illogico. Peggio, se si parla di cibo: sareste disposti a cambiare un piatto tradizionale, magari la nostra amata pizza, per renderla più sostenibile?
Come quasi tutte le tradizioni, anche quelle culinarie sono, spesso, impattanti e poco efficienti. Per l’estate 2019 Fondazione Barilla, da tempo dedita allo studio e alla promozione della sostenibilità alimentare nel mondo, ha stilato la classifica di sostenibilità dei piatti tradizionali dei luoghi più comunemente visitati dai turisti italiani. Il responso è consultabile tramite il Food Sustainability Index, e dimostra come Paesi genericamente virtuosi dal punto di vista alimentare abbiano usi in cucina non esattamente all’altezza della propria condotta, e viceversa. Diversi i parametri di qualifica presi come riferimento: il Carbon Footprint, ovvero la quantità di gas serra emessa per la produzione del piatto in analisi, espressa in grammi; il Water Footprint, vale a dire il volume d’acqua utilizzato, espresso in litri; la superficie di terreno necessaria alla produzione.
I piatti sono stati poi ordinati nella Piramide Ambientale: la sostenibilità diminuisce a mano a mano che si sale verso la vetta. Siete curiosi di scoprire quanto è stato impattante per le vostre vacanze lasciarsi andare ad uno dei primi piaceri del viaggio, che è la scoperta di nuovi sapori?
Partiamo dalla Spagna: impensabile non provare la classica paella. Ad una porzione di 100 grammi non corrispondono, però, solo proteine, fibre e carboidrati, ma anche quasi 2 m2 di terreno e 241 litri di acqua. La performance è buona, soprattutto se confrontata con il classico portoghese pasteis de bachalau (crocchetta di baccalà), che per 100 grammi produce 170 grammi di CO2 (250, se il baccalà è alla brace). Verdetto: parte medio-bassa della classifica.
Ci spostiamo, e arriviamo in Francia. La posizione in classifica diminuisce e il colore del piatto si fa verde scuro con la tipica insalata nizzarda. A giovarne mangiandola non solo la dieta, trattandosi di un piatto fresco e leggero, ma anche l’ambiente, poiché una porzione da 100 grammi produce appena 64 grammi di CO2. Bene anche la Grecia con la moussaka, che richiede 241 litri di acqua per una porzione da 100 grammi.
Il podio, però, spetta a paesi come Israele, Libano ed Egitto grazie ai falafel: colore verde pieno a premiare i soli 101 grammi di anidride carbonica prodotti per una porzione da un etto.
Diverso è il caso del cous cous, tipico piatto marocchino. L’indice in classifica si sposta verso l’alto, e a fronte di 548 litri di acqua (50 in meno, se si sceglie la versione vegetariana) la ricetta ricade nella fascia arancione. Ancora peggio il caso della Croazia: la pašticada, uno dei piatti più famosi della Dalmazia, a base di carne di vitello, richiede 15 m2 di terreno e 2.300 litri d’acqua.
Rosso e fondo classifica, nonostante i consistenti passi in avanti che il Paese sta compiendo in termini di sostenibilità alimentare: lo spreco di cibo a livello individuale, ad esempio, di 56 kg/anno, è un po’ più contenuto anche di quello italiano (65 kg/anno).
Fine del giro: torniamo in Italia. Posizione intermedia per la classica pizza margherita, Carbon Footprint da 652, Water Footprint da 412, 2,46 m2 di terreno impiegati. La consolazione? Sicuramente il sapore impareggiabile, e forse anche il sorpasso di altri classici intramontabili, come il fish and chips inglese.
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