Alcune aziende ignorano il loro impatto ambientale e hanno consumato tutto il carbon budget che ci rimane. Scopri i dettagli.
Il concetto di “carbon budget” rappresenta uno degli strumenti chiave utilizzati per monitorare e limitare le emissioni di anidride carbonica (CO2) a livello globale. Esso si basa sull’idea che esista una quantità massima di CO2 che può essere emessa nell’atmosfera senza superare determinati livelli di riscaldamento globale. Il parametro di riferimento attualmente più utilizzato è quello fissato dall’Accordo di Parigi, che mira a limitare l’aumento della temperatura globale al di sotto dei 2 gradi Celsius, con l’aspirazione di non superare 1,5 gradi.
Il bilancio di carbonio non è solo una misura astratta, ma uno strumento pratico per valutare le azioni necessarie da parte dei paesi e delle aziende per evitare catastrofi climatiche. Ogni tonnellata di CO2 emessa riduce il “margine” disponibile per le emissioni future. Di conseguenza, ogni ritardo nell’adozione di misure di riduzione significative porta a un restringimento dello spazio di manovra, aumentando i rischi di superare i limiti stabiliti e di innescare cambiamenti climatici irreversibili.
Il carbon budget è spesso associato a un senso di urgenza. Ogni anno, le emissioni globali continuano ad aumentare, e la quota di emissioni rimanenti si riduce. Questo fenomeno rende sempre più difficile rispettare gli obiettivi climatici e, con il passare del tempo, riduce la fattibilità di soluzioni graduali o parziali. Per questo motivo, molti esperti sottolineano l’importanza di agire immediatamente, senza attendere ulteriori progressi tecnologici o condizioni economiche più favorevoli.
Un altro aspetto fondamentale del carbon budget è la sua distribuzione. Non tutte le nazioni o aziende contribuiscono in modo uguale alle emissioni globali. Alcuni attori industriali, in particolare nel settore dell’energia e dei combustibili fossili, sono responsabili di una parte considerevole delle emissioni. Questo solleva importanti questioni su come allocare il budget rimanente e su chi debba prendere le misure più drastiche per ridurre le emissioni.
Secondo un recente rapporto pubblicato dall’organizzazione Oil Change International, otto delle maggiori compagnie petrolifere e del gas, tra cui Eni, stanno procedendo nella direzione opposta rispetto agli obiettivi climatici dell’Accordo di Parigi. L’analisi ha mostrato come, collettivamente, queste aziende potrebbero consumare il 30% del carbon budget rimanente necessario a limitare l’aumento della temperatura globale a 1,5 gradi Celsius. Chevron, ExxonMobil, Shell, TotalEnergies, BP, Eni, Equinor e ConocoPhillips risultano non allineate agli standard necessari per raggiungere tali obiettivi.
La situazione appare ancora più critica se si considera che sei di queste otto aziende, inclusa Eni, hanno dichiarato l’intenzione di aumentare la produzione di petrolio e gas nei prossimi anni. Anche le aziende che non hanno esplicitamente previsto un incremento delle trivellazioni stanno comunque espandendo i loro progetti legati ai combustibili fossili, spesso attraverso vendite o trasferimenti di asset a terzi. Questo comporta un ulteriore ritardo nella transizione energetica, mentre il budget di carbonio disponibile continua a ridursi a ritmi allarmanti.
Mentre alla Cop28 di Dubai si discute di ridurre l’uso di combustibili fossili, le principali compagnie petrolifere raddoppiano i loro sforzi per espandere la produzione di idrocarburi, aggravando la crisi climatica. Nessuna di queste aziende ha stabilito obiettivi concreti per una rapida e continua riduzione delle emissioni, e molte si affidano a tecnologie speculative come la cattura e stoccaggio del carbonio (CCS) per rimandare l’inevitabile transizione.
Questo atteggiamento non solo mette a rischio il raggiungimento degli obiettivi climatici, ma compromette anche la stabilità economica a lungo termine delle aziende stesse. Secondo gli esperti, continuare a puntare sui combustibili fossili senza una chiara strategia di decarbonizzazione potrebbe portare a un futuro di instabilità per gli investitori e per i lavoratori, soprattutto se le normative globali diventeranno più severe. L’assenza di un piano concreto rischia di trasformarsi in una crisi, non solo ambientale, ma anche finanziaria e sociale.
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