Bioplastiche, ne sentiamo continuamente parlare ma quanto ne sappiamo davvero? A ciascuno di noi sarà capitato più volte di sentir parlare di sostenibilità ambientale, o di leggere termini come eco-friendly o green-living, tutte espressioni che descrivono un rapporto consapevole e rispettoso dell’uomo con l’ecosistema. Ed è proprio in tale scenario che si inseriscono i sempre più menzionati biopolimeri.
Prima di entrare nel vivo dell’argomento, quando parliamo di biopolimeri, come chiarito dalla European Bioplastics, identifichiamo un tipo di materiale che può essere biodegradabile, a base biologica (bio-based) o possedere entrambe le caratteristiche.
Ciò significa che un biopolimero può derivare:
Analizziamo i due termini che abbiamo appena menzionato: biodregrabadilità e biocompostabilità. Per biodegradabilità si intende un materiale che si degrada (biodegradazione) in unità molecolari più piccole (riduzione della dimensione della macromolecola) per effetto di agenti fisici esterni (T o Oշ) o per azione di microrganismi (ad esempi funghi e batteri) con formazione di composti quali HշO, COշ, CH₄.
La capacità di biodegradare dipende unicamente da composizione e struttura del polimero e non dall’origine della materia prima: può biodegradare anche un polimero di origine fossile. La biodegradabilità non implica la biocompostabilità. Per biocompostabilità si intende un materiale biodegradabile che viene assimilato come fonte alimentare da organismi viventi. I materiali biocompostabili sono biodegradabili.
Per Assobioplastiche, Associazione Italiana delle Bioplastiche e dei Materiali Biodegradabili e Compostabili fondata nel 2011, nelle bioplastiche rientrano materiali e manufatti sia di fonti rinnovabili sia di origine fossile che hanno la caratteristica di essere biodegradabili e compostabili. Assobioplastiche inserisce unicamente nelle bioplastiche quelle derivanti parzialmente o interamente da biomassa biodegradabili e compostabili, altrimenti etichettate come “plastiche vegetali”. I materiali plastici, come PE, PP, PET non a base bio, non biodegradabili basati su risorse fossili rientrano nella categoria delle plastiche convenzionali e non nelle bioplastiche.
Al giorno d’oggi la maggior parte delle bioplastiche è ottenuta a partire da materie prime rinnovabili a noi molto familiari quali mais o canna da zucchero. A questo punto sorge spontaneo porsi una domanda a riguardo: può ritenersi etico e vantaggioso sottrarre cibo utile come alimentazione per produrre biopolimeri quali bioplastiche? Proprio per far fronte a tale interrogativo si stanno cercando tecnologie tali da usare ad esempio scarti agricoli o comunque metodi alternativi.
A tal proposito spostiamoci nel settore dell’industria dell’abbigliamento da cui arriva l’eco-tessuto prodotto dalle fibre di cocco: Nullarbor. Come si può vedere dalla foto si tratta di una vera e proprio fibra che si ottiene grazie alla conversione microbica della biomassa in cellulosa. La materia prima è costituita dagli scarti dell’industria del cocco ma ciò che fa ben sperare è la possibilità di adattare tale processo a differenti tipi di rifiuti organici, utilizzando il meno possibile acqua ed energia.
L’acido polilattico (l’acronimo PLA sta per Polylactic Acid), o anche definito il poli(acido lattico) o polilattato, è il polimero dell’acido lattico. Ma di cosa si tratta realmente? La polimerizzazione del PLA è ottenuta tramite processo chimico industriale di policondensazione dell’acido lattico e/o dalla polimerizzazione per apertura dell’anello del lattide. Vediamo, per farci un’idea, una rappresentazione della struttura chimica del PLA:
Ma ciò che rende il PLA così interessante è la possibilità di ricavarlo a partire da semplici scarti dell’industria agroalimentare. Ecco uno schema che evidenzia il concetto di processo produttivo circolare:
Le principali caratteristiche del PLA sono: buona trasparenza, molto lucido, materiale rigido ma fragile (se non orientato). Se non orientato presenta una scarsa resistenza termica: cristallizza lentamente e si degrada a basse T circa 60°C, materiale igroscopico, bassa barriera all’umidità. Lo stiramento (stretching) ne migliora le proprietà. Molte delle sue applicazioni sono da trovarsi tra: termoformatura, film (bi) orientato, iniezione-soffiaggio (bottiglie).
Discutiamo adesso dell’importanza e dell’introduzione a livello commerciale di tale materiale. Al momento il PLA trova largo impiego nel settore del confezionamento per la realizzazione di:
Ciò che più sfiducia l’utilizzo del PLA nel settore del food packaging è la sua elevata permeabilità nei confronti di Oշ e COշ (proprietà barriera) che lo rendono poco adatto ad alcune applicazioni alimentari, ma sicuramente ben più idoneo al confezionamento di frutta e verdura fresche. Parlare di food packaging significa contemporaneamente soddisfare richieste legislative, tecnologiche in particolare meccaniche, ed igienico-sanitarie di interesse sia per il produttore ma soprattutto per il consumatore.
Innanzitutto trattare del food packaging significa partire dal presupposto che qualsiasi alimento può vedersi come sistema dinamico caratterizzato da una shelf life limitata. Penso sia intrinsecamente chiara l’importanza del preservare l’alimento e le sue proprietà organolettiche.
Un team di ricerca israeliano composto da studiosi della Scuola di Scienze della Terra e Ambientali “Porter” e della Scuola di Chimica dell’Università di Tel Aviv ha creato una speciale plastica ecologica: poliidrossialcanoato (PHA). Si tratta di un biopolimero con qualità eccezionali: biodegradabile, non produce sostanze tossiche, riciclabile nei rifiuti organici ed infine facilmente generabile.
Più precisamente il team di ricerca ha alimentato colonie di batteri Haloferax mediterranei con macroalghe verdi del genere Ulva per generare PHA. Produrre plastica biodegradabile in acqua di mare significa non usare acqua potabile e terreni fertili. Ma cosa significa? Significa semplicemente non richiedere impianti adeguati e di considerevole impatto ambientale. La rivoluzionaria scoperta del team del dottor Alexander Goiberg e del professor Michael Gozin potrebbe rendere commerciabile la plastica biodegradabile su larga scala.
Guardiamo, riassumendo, i vantaggi legati all’uso delle bioplastiche confrontandoli con l’impiego della plastica tradizionale:
Per poter diffondere l’impiego delle bioplastiche e in generale per adottare politiche ecosotenibili è imprescindibile cambiare ottica non solo nell’ambito produttivo ma in ognuno di noi, ogni individuo può fare la differenza e non dimentichiamoci che per fare grandi cambiamenti si inizia sempre dalla piccola dimensione. Lasciamoci con l’augurio di ritrovarci in futuro in una realtà più verde e pulita.
A cura di Altea Bello
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