Anche la FIA (Fédération Internationale de l’Automobile) ha introdotto nel nuovo regolamento tecnico per la Formula 1 (paragrafo 16.4.4) l’obbligo di modificare il carburante per le più famose auto da corsa al mondo seguendo la tendenza globale del bio. È previsto, infatti, che almeno il 10% del carburante sia costituito da etanolo avanzato e sostenibile. Cerchiamo di capire insieme di cosa si tratta e come può essere prodotto il bioetanolo.
L’apposizione del prefisso bio davanti a una parola la rende automaticamente più allettante agli occhi di tutti, e questo è ormai noto. Ci sono dei casi, però, soprattutto in ambito tecnico, in cui tale prefisso assume un significato ben preciso.
Esso, infatti, si riferisce all’origine del prodotto: la biomassa. Questa può essere animale (reflui zootecnici) o vegetale (residui agricoli e forestali, sottoprodotti e residui dell’industria agro-alimentare o derivante da colture dedicate).
In questo articolo tratteremo solo di biocarburanti (trasporti) da distinguere rispetto ai biocombustibili (riscaldamento e cogenerazione di energia elettrica).
Il bioetanolo, insieme al biodiesel, è sicuramente il più conosciuto tra i biocarburanti per la relativa semplicità e per la sua versatilità in termini di produzione e utilizzo. Il bioetanolo è prodotto per fermentazione alcolica a partire da glucosio che, dopo essere stato convertito in piruvato, viene decarbossilato e ridotto a etanolo e diossido di carbonio.
Questo processo può essere seguito indipendentemente dalla fonte glucidica iniziale con opportuni pre e post trattamenti. Nel caso in cui siano utilizzate colture zuccherine dedicate si parla di bioetanolo di prima generazione.
L’agroenergia, tuttavia, utilizza gli stessi fattori di produzione del settore agricolo. C’è il rischio, quindi, che con l’aumento della domanda, il bioetanolo causi indirettamente la crescita dei prezzi agroalimentari. Per superare questo problema sono stati sviluppati dei biocarburanti di seconda generazione per i quali si utilizzano materie prime non agricole quali risorse lignocellulosiche.
Il processo fermentativo, analogamente a quanto avviene nella panificazione o nella produzione di bevande alcoliche, richiede la presenza di un substrato adatto all’attività microbica.
La biomassa lignocellulosica è composta di tre matrici polimeriche: cellulosa, emicellulosa e lignina. Per questo motivo il processo di produzione di bioetanolo a partire da questi residui richiede diversi pretrattamenti chimico-fisici con l’obiettivo di ridurne il grado di cristallinità e quindi aumentare la frazione cellulosica amorfa, più facilmente attaccabile dagli enzimi degradativi. Tra i più utilizzati trattamenti bisogna citare la frantumazione meccanica della risorsa, la pirolisi e la cosiddetta steam explosion.
La pirolisi è un processo endotermico con temperature di processo maggiori di 300 °C che permette la decomposizione della cellulosa in prodotti gassosi (idrogeno e monossido di carbonio) e in una frazione solida, il char, utilizzato come fonte di carbonio.
La steam explosion, invece, è un processo che consiste nel trattamento della biomassa con vapore d’acqua ad alta temperatura e pressione (20-50 bar, 160-190 °C) per qualche minuto con subitanea decompressione. Il vapore, lasciato espandere all’interno della matrice lignocellulosica, permette la separazione delle fibre.
A questo punto la biomassa viene idrolizzata utilizzando una soluzione acida, generalmente di acido solforico, a medio-alta temperatura o, equivalentemente, appositi enzimi definiti cellulasi (idrolisi enzimatica). Questi catalizzano l’idrolisi dei legami β-glicosidici permettendo la depolimerizzazione delle catene polisaccaridiche.
Il cuore del processo di produzione di bioetanolo è sicuramente rappresentato dalla fermentazione. Questa può essere condotta utilizzando diversi microorganismi. Da annoverare sicuramente Saccharomyces cerevisiae.
Negli ultimi anni la ricerca ha portato all’ingegnerizzazione e allo sviluppo di alcuni ceppi microbici con l’obiettivo di eliminare la tappa idrolitica che costituisce un costo sostanziale nell’intera linea produttiva (circa il 40% dei costi).
Ad esempio, alcuni ricercatori del dipartimento di genetica della University of Georgia, hanno editato un batterio, Caldicellulosiruptor bescii, in grado di operare una conversione diretta della biomassa in etanolo con pari rese rispetto al processo tradizionale.
Il secondo prodotto della via fermentativa è il diossido di carbonio. La tendenza delle aziende produttrici di questo biocarburante è quella di adottare tecniche di CCS (Carbon Capture and Sequestration) per limitarne la dispersione nell’ambiente.
Affinché l’etanolo possa essere utilizzato come carburante è, a questo punto, necessario separarlo dagli altri sottoprodotti. Per far ciò, la cosiddetta birra deve essere sottoposta a distillazione. Il prodotto è una miscela etanolo-acqua detta etanolo idrato. Questa, pur essendo direttamente utilizzabile nei motori, non può essere miscelata in qualsiasi rapporto con la benzina e per questo deve essere ulteriormente raffinata per ottenere una miscela con percentuale di etanolo >99% definita etanolo anidro. Esistono diversi processi con i quali è possibile raggiungere tale obiettivo.
Quello attualmente più utilizzato prevede l’impiego di setacci molecolari opportunamente dimensionati (3 Å) e sfrutta le differenze di dimensione delle molecole di acqua (2.8 Å) ed etanolo (4 Å): le prime riescono a passare, le ultime rimangono intrappolate e possono, quindi, essere separate.
Il bioetanolo è potenzialmente “carbon-neutral” essendo tutto il biossido di carbonio emesso durante la combustione bilanciato dall’assorbimento in atmosfera durante la crescita delle colture. In pratica, però, tutta la filiera richiede l’utilizzo di combustibili fossili per la fertilizzazione, la mietitura, la produzione e la distribuzione del combustibile. Il valore globale delle emissioni di gas serra nell’intero ciclo di vita è, quindi, fortemente dipendente dalla coltura e dal tipo di tecnica di produzione utilizzata.
Le miscele a basso tenore di bioetanolo possono essere utilizzate in motori senza sostanziali modifiche. Un esempio è la miscela “E10”, composta dal 10% di etanolo e dal 90% di benzina. Le miscele che contengono un’alta percentuale di etanolo richiedono, invece, modifiche al motore che deve essere ricalibrato.
Dal punto di vista tecnico l’etanolo è caratterizzato da una bassa densità energetica: sarà necessario circa il 50% in più di carburante, rispetto alle miscele tradizionali, a parità di spazio percorso. Allo stesso tempo, però, il numero di ottano più elevato permette un maggiore rapporto di compressione e, dunque, una migliore performance. Un’altra applicazione interessante per questo prodotto è la sua conversione in ETBE (t-butil-etiletere), antidetonante più sicuro dell’MTBE, ormai sempre più in disuso.
Articolo a cura di Francesco DE LEO
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