Lo sviluppo di nuove fonti di energia rinnovabili rappresenta ad oggi una necessità urgente se si vuole proseguire nella direzione della sostenibilità energetica e ambientale. Negli ultimi anni si è assistito ad un’enorme crescita delle tecnologie utili all’impiego di fonti di energia presenti in abbondanza ed in grado di ridurre le immissioni inquinanti. Ecco, dunque, che in tale contesto l’invenzione dell’Università della California San Diego di produrre energia con il sudore delle dita potrebbe avere un impatto decisamente positivo.
Si tratta di un dispositivo costituito da celle a biocombustibile in grado di ricavare energia mediante la scomposizione del lattato, un composto chimico che si trova disciolto nel sudore. Le celle, costituite da speciali coppie di elettrodi, sono inserite all’interno di sottili cuscinetti posti sui polpastrelli, e assorbono il sudore raccogliendolo in uno strato sottile. È qui che agisce un enzima il cui effetto ossidante sul lattato permette di generare una carica elettrica.
Quest’ultima viene dunque immagazzinata all’interno di un minuscolo condensatore, pronta per essere utilizzata da un altro dispositivo. Il dispositivo si presenta come un cerotto che avvolge la falange e, a differenza di quanto potrebbe sembrare dati gli elettrodi presenti, può essere indossato a lungo senza dare quella fastidiosa sensazione di rigidità, risultando sufficientemente comodo.
Che il sudore possa essere utilizzato come fonte d’energia per dispositivi indossabili non è una novità. Diversi dispositivi alimentati dal sudore sono già stati realizzati negli ultimi anni, tuttavia necessitano di grandi volumi di liquido che solo mediante l’esercizio fisico possono essere forniti. A differenza di tali dispositivi, il nuovo apparecchio non richiede la presenza di attività fisica o di alcun tipo di movimento per riuscire ad ottenere una consistente quantità di sudore.
L’innovazione, in questo caso, è fondamentalmente legata alla scelta di posizionare le celle energetiche attorno alle dita, quasi come fossero dei normali cerotti. Le dita rappresentano, infatti, una delle regioni del nostro corpo a più alta concentrazione di ghiandole sudoripare. Di conseguenza, anche in assenza di attività fisica o semplice movimento, la quantità di sudore prodotta dai nostri polpastrelli è superiore a quasi ogni altra zona del corpo. Basta indossare il dispositivo la notte per generare elettricità sufficiente ad alimentare un orologio elettronico per un giorno intero.
Chi indossa il dispositivo non deve fornire alcun input fisico per farlo funzionare. È un passo avanti per rendere i dispositivi indossabili più pratici, convenienti ed accessibili per tutti. Anche con la minima quantità di sudore, rispetto al sudore ottenuto mediante un allenamento molto intenso, si riesce ad ottenere una potenza considerevole. Non importa quanto possa essere pulita la tua mano, sarà sempre molto facile lasciare la tua impronta digitale ovunque. Questo non è altro che il residuo del tuo sudore e ciò di cui abbiamo approfittato.
Lu Yin, autore della ricerca
Si calcolano, per ogni polpastrello, dai 20 ai 40 microwatt di potenza e 300 millijoule di energia per centimetro quadrato durante 10 ore di sonno. Sebbene ciò non basti ancora ad alimentare dispositivi con maggiori esigenze energetiche come gli smartphones, è più che sufficiente per altri con meno funzionalità come i sensori in grado di rilevare la frequenza cardiaca o i livelli di glucosio e ossigeno.
Inoltre, bisogna precisare che il dispositivo è in grado di produrre energia anche tramite il semplice battere delle dita, come quando scriviamo un messaggio al cellulare o digitiamo sulla tastiera del computer. In tal caso il principio di funzionamento è leggermente diverso, in quanto si basa sul movimento delle dita che aziona un piccolissimo chip posto sotto gli elettrodi.
La realizzazione del dispositivo, come dichiarato dagli stessi autori, è stata tutt’altro che semplice, in virtù delle dimensioni estremamente ridotte dei chip che hanno richiesto materiali altamente specializzati. Il passo successivo sarà quello di migliorare l’efficienza energetica di tali chip: solo così potranno mostrarsi davvero utili come fonte di alimentazione per sensori o altri gadget elettronici indossabili. Inoltre, poiché l’enzima alla base della reazione chimica tende a degradarsi col tempo, risultando inefficace dopo sole due settimane, ulteriori ricerche saranno necessarie per creare un enzima più stabile e che possa garantire l’uso permanente del dispositivo.
A cura di Giovanni Maida
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