La redazione di Energy-Cue ha sempre avuto costante impegno e interesse nella divulgazione scientifica sul tema nucleare. Ma tutta la storia della filiera di produzione nucleare deve aver avuto un capostipite, un proto-impianto. Attraverso l’oceano Atlantico e gli Stati Uniti d’America. Facendo tappa alla Columbia University e muovendo poi i passi nell’entroterra fino a raggiungere la regione dei grandi laghi. Ricordando appena la toccata e fuga a Stoccolma per ritirare il premio Nobel per la fisica, conferitogli nel 1938, è questo, in breve, l’itinerario che ha portato Enrico Fermi a Chicago.
Di primo acchito sembrerebbe che Enrico Fermi abbia deciso di approdare negli Stati Uniti d’America unicamente per una questione di finanziamenti concessi alle università e istituti di ricerca. Certamente agli albori del XX secolo il mondo scientifico era a dir poco in fermento. Consolidata, nei primi due decenni, quella che viene chiamata vecchia teoria dei quanti,si andavano delineando, dalla seconda metà degli anni ’20, i concetti della meccanica quantistica. Scoperte scientifiche una via l’altra e la mente umana proiettata all’investigazione spietata dell’infinitamente piccolo.
L’istituto di Via Panisperna, nel cuore di Roma, guidato da Enrico Fermi e con collaboratori del calibro di Segrè, Amaldi, Pontecorvo, Majorana, Rasetti, D’Agostino, per continuare a competere ai massimi livelli nella ricerca necessitava di attrezzature molto costose. Sondare la radioattività degli elementi con l’intuizione corretta di bombardare i nuclei con neutroni chiamava la necessità di dotarsi di un acceleratore di particelle in grado di generarli in fasci di adeguata energia e alta intensità.
Nonostante gli importanti finanziamenti concessi dallo stato all’Istituto, questi non permettevano di accaparrarsi acceleratori di particelle compatibili con gli obiettivi dei ragazzi di Via Panisperna. Lo stato, appunto. Perché trascurare l’impronta sociopolitica italiana degli anni ’30 sarebbe un errore logico assai grave. La rottura radicale portata a termine dal movimento reazionario guidato da Benito Mussolini nel decennio precedente su un Italia devastata dal primo conflitto mondiale. I
l dominio incontrastato del Partito Nazionale Fascista e l’affinità ideologica con il Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori di Adolf Hitler che prende il potere in una Germania furiosa nel 1933. Le prospettive di trattative diplomatiche comprensibilmente collassate sotto l’erosione di frizioni malcelate figlie di anni di conflitto e progetti lungimiranti di nuovi dittatori. Questo il palcoscenico europeo trincerato nel quale la scienza si erge come una cattedrale nel deserto. La goccia che fece traboccare il vaso fu, per Enrico Fermi, l’emanazione delle leggi razziali nel 1938, che vedeva tra i diretti interessati Laura Capon, sua moglie, ebrea.
Enrico Fermi, Laura e Niels Bohr sbarcarono a New York il 2 gennaio 1939. Iniziò così la collaborazione con la Columbia University dove Fermi avrebbe operato, inserito nel team di ricerca nucleare. Dopo la scoperta dei tedeschi O. Hahn e F. Strassmann circa la natura fissile e/o fissionabile degli elementi pesanti, Fermi si gettò a capofitto nello studio sull’economia neutronica nelle reazioni di fissione dei diversi isotopi dell’uranio.
Fermi confermò quindi l’ipotesi posta in essere da L.Szilard nel 1933, sulla possibilità di avere una serie di reazioni nucleari a catena. La fissione dell’isotopo U235 genera in media 2,8 neutroni veloci, di energia compresa tra 10 keV e 10 MeV. Opportunamente termalizzati (rallentati) tramite dissipazione in calore negli urti con i nuclei del moderatore, aumenta la probabilità di portare a fissione altri nuclei di U235. Rimandando a un futuro articolo l’approfondimento sulle dinamiche delle reazioni nucleari di fissione, basti qui appurare che ai ricercatori si palesò la possibilità di costruire una pila che ospitasse tali catene di reazioni autosostenentesi.
Per la realizzazione di quello che sarà poi il proto-reattore nucleare a fissione, chiamato pila fino al 1952, il team si spostò a Chicago per servirsi del Met Lab, il rinomato laboratorio metallurgico dell’università. Venne scelto come sito dell’esperimento un campo abbandonato del polo sportivo del campus. In questo modo si sarebbero minimizzati gli effetti avversi nel caso qualcosa fosse andato storto. Fermi si limitò a dire che in tal caso sarebbe andato via camminando, senza fretta.
La fiducia che riponevano gli scienziati gli uni negli altri era enorme. Forse l’entusiasmo per la portata rivoluzionaria dell’esperimento permise che venissero omessi schermi di protezione dalle radiazioni e sistemi di raffreddamento. Il focus dei calcoli di Fermi era teso alla determinazione della massa critica di uranio e alle manovre da eseguire sulle barre di controllo al cadmio, nelle quali risiedeva l’unico controllo attivo sul reattore. La pila avrebbe dovuto funzionare ad ogni costo.
La pila era composta da 5,6 tonnellate di uranio metallico e 36 tonnellate di ossido di uranio in pellets. Queste erano alternate a 350 tonnellate di blocchi di grafite con funzione moderante e strutturale. L’unico modo per controllare la reazione e raggiungere l’assetto critico, che va ad indicare l’inizio dell’autosostentamento della reazione, è tramite la regolazione dell’escursione delle barre di controllo nella pila.
La pila entra in funzione il 2 dicembre 1942. Nel primo pomeriggio raggiunge l’assetto critico e pochi minuti dopo viene spenta, reinserendo tutte le barre di controllo. In quel freddo giorno dei tristi anni della Seconda guerra mondiale il navigatore italiano è giunto nel nuovo mondo. Ma sotto l’epidermide della ricerca scientifica nucleare statunitense si nascondeva il Progetto Manhattan. Così parallelamente ad un utilizzo etico del nucleare per la produzione di energia elettrica si assiste all’immobilizzazione di plutonio nelle testate nucleari militari. Due di queste, Little Boy e Fat Man, ridussero in polvere Hiroshima prima e Nagasaki poi.
Io lo so. Tutto ciò si ripeterà: 200.000 morti e 80.000 feriti in nove secondi. Queste cifre sono ufficiali. Ma tutto ciò si ripeterà. Avremo 10.000 gradi sulla terra: 10.000 soli, si dirà. Brucerà l’asfalto, regnerà un profondo disordine, un’intera città sarà sollevata da terra e ricadrà in cenere, e vegetazioni nuove sorgeranno dalla sabbia.
Marguerite Duras
Articolo a cura di Marco FILABOZZI
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