Nel luglio del 2019, David Bowen ha viaggiato dalla costa dell’Oregon fino a Honolulu sulla Falkor, una nave di ricerca dello Schmidt Ocean Institute Research. L’illusione che l’oceano Pacifico fosse incontaminato era sparita subito dopo pochi kilometri a causa di numerosi frammenti di plastica. L’artista ha deciso quindi di criticare l’inquinamento degli oceani con la sua ultima opera Wilderness.
Gli accelerometri sono molto usati in ambito della progettazione navale per determinare lo spettro completo delle onde. Come funzionano?
Bisogna immaginare un cubo con una sfera al suo centro sospesa da 3 molle, a loro volta agganciate al centro di una faccia del cubo. Se il cubo si muove, la sfera si muoverà al suo interno comprimendo e allungando le molle che la reggono. Il grado di compressione delle molle determina l’accelerazione e il movimento in una determinata direzione. Così facendo si può riprodurre il movimento tridimensionale di un’onda. È quello che fa Wilderness con tre sacchetti di plastica sospesi per aria in una galleria del vento. I getti d’aria prodotti riproducono il moto ondoso in base ai dati registrati dall’accelerometro. Lo scopo di quest’opera è riprodurre i movimenti della plastica negli oceani per una maggiore sensibilizzazione dell’opinione pubblica.
La Falkor era un peschereccio tedesco costruito nel 1981 che è stato convertito in una nave da ricerca nel 2012 dalla Schmidt Ocean Institute Research SOI.
La fondazione no profit ha usato la Falkor per innumerevoli ricerche negli ultimi 8 anni. Dal ritrovamento di detriti di meteorite alla mappatura dei fondali oceanici, dalla scoperta di nuove specie di vita sottomarine alla decriptazione dei sonar usati dai cetacei.
A partire dal 2019, la SOI ha dato il via al programma Artist-at-Sea, iniziando così collaborazioni con numero artisti per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’inquinamento. Una condizione particolare a chi aderisce al programma è la stretta collaborazione con gli scienziati e l’utilizzo degli strumenti a bordo. La Schmidt Ocean vuole fornire una nuova visione della ricerca marina usando l’arte come mezzo di comunicazione. A causa del COVID-19 il programma ha dovuto ridurre il numero di collaborazioni, ma coi nuovi piani vaccinali la SOI dovrebbe riuscire ad aumentarle nel corso del 2021.
Secondo una stima da parte del WWF, a oggi la quantità di rifiuti presente negli oceani ammonta a 86 milioni di tonnellate. Questa cifra aumenta ogni anno di quasi 24 milioni di tonnellate. In pratica è come se ogni ora finissero in mare due camion pieni di rifiuti. Questi rifiuti sono costituiti principalmente da plastica.
I dati cambiano a seconda delle zone, ma in media la percentuale è dell’80%. La plastica impiega centinaia di anni a biodegradarsi, e in mare ancora di più per via della salinità e dello scarso ossigeno. Quando la plastica degrada, si crea il problema delle microplastiche che è meno visibile ma ancora più problematico. Secondo uno studio della fondazione americana Ellen MacArthur, nel 2025 arriveremo a 150 tonnellate e nel 2050 avremo più plastica che pesci. La situazione più critica si ha nell’oceano Pacifico, dove i paesi più inquinanti del mondo gettano continuamente i loro rifiuti (tra questi troviamo Cina, Malesia e Indonesia).
Si è arrivati quasi a coprire il 10% della sua superficie di plastica, formando il Pacific Trash Vortex, un ammasso di spazzatura esteso quanto gli Stati Uniti. Questa situazione di emergenza evidenzia sempre di più la necessità della ricerca, così da ottenere materiali alternativi. Per arginare il problema sono necessarie economie circolari oltre a un incremento del riciclaggio che a oggi non arriva al 20%.
Articolo a cura di Luigi SAMBUCETI
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