Articolo a cura di Luisa BIZZOTTO
Uno dei problemi maggiori: il rilevamento effettivo dell’entità di tale epidemia. Finora ci si è basati solamente sul rapporto tra contagiati e vittime, senza riuscire a tenere conto anche di tutti quei positivi silenti.
Il nuovo metodo per analizzare la diffusione del virus si basa sull’analisi delle acque reflue. Esso è stato diffuso dalla rivista Nature tramite la pubblicazione dell’articolo di Smriti Mallapaty. L’idea che è emersa, anche se non è detto sia completamente risolutiva, potrebbe portare ad una svolta.
Il sistema dovrebbe rivelarsi vincente, giacché mette in campo una quantità di dati ingente che comprende non solamente un individuo, ma una moltitudine costituita da milioni di persone.
Tali studi sono utilizzati in Olanda, Stati Uniti e Svezia. Si stima che le cifre che potranno essere raccolte in futuro potrebbero rappresentare un campione statistico sufficientemente ampio e accurato.
Questo concetto è ribadito anche dal capo di progetto dell’Università del Michigan Krista Wigginton. Essa conferma che il dato rilevato risulta essere indipendente dal numero dei test effettuati, a differenza di ciò che accade per i tamponi.
Questa tecnica ha radici che provengono da molto lontano. Infatti, è già utilizzata per stimare la quantità di droghe o tossine assunte dalla popolazione. Solitamente gli esami vengono conseguiti in laboratorio su campioni di acqua, dove è valutata in particolare la presenza di superbatteri resistenti agli antibiotici. Inoltre, in queste analisi viene tenuto conto di vari parametri.
Il parametro principale che è utilizzato è il COD, che rappresenta la domanda chimica di ossigeno. A quest’ultimo è affiancata anche l’analisi del pH, dell’ossigeno disciolto, di fosforo, azoto, ammoniaca, nitrati e metalli come cromo e ferro.
In questo caso «le acque reflue passano attraverso un sistema di drenaggio verso una struttura di trattamento» dove sono rilevate le possibili malattie infettive.
Tuttavia come è presumibile, anche in questo caso l’analisi delle acque di scarico è una misurazione che presenta alcuni limiti. Il principale è caratterizzato dall’impossibilità di determinare l’effettiva permanenza dell’RNA virale all’interno delle urine e delle feci dei pazienti.
Questa incertezza comporta molti problemi nell’identificare il campione rappresentativo e nella stima del numero di infetti equivalente. Un altro ostacolo è posto dai limiti tecnici che comporta un esame di tale entità, ma su questo fronte forse vi può essere già una soluzione.
Zhugen Yang, esperto dell’Università di Cranfield, già da anni sta proseguendo nella costruzione di alcuni sensori che possano individuare batteri antibiotico-resistenti o patogeni, e comunicare tale rilevazione da remoto. Questi sensori sono costruiti con semplice carta e riescono a filtrare gli acidi nucleici dei virus. Questi dispositivi riescono a rilevarne la presenza tramite i reagenti che vi sono contenuti, e potrebbero essere rappresentare la soluzione al problema.
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