Articolo a cura di Giovanna PALLOTTA
“No plastic in nature: assessing plastic ingestion from nature to people” è il titolo di uno studio pubblicato lo scorso giugno dall’Università di New Castle, Australia, e commissionato dal WWF. Lo scopo: stimare la quantità di microplastiche ingerita mediamente dall’uomo. La ricerca si inserisce perfettamente in un contesto che, notoriamente, cerca di abbandonare questo amato e odiato materiale, con scarso (o al limite impercettibile) successo.
Secondo quanto riportato nell’articolo, dal 2000 il mondo avrebbe prodotto tanta plastica quanta tutta quella prodotta negli anni precedenti. Di questa abbondantissima produzione circa un terzo, alla fine, finisce in natura: nel 2016 i rifiuti in plastica hanno raggiunto le 100 milioni di tonnellate. Se a questo, poi, si somma la cattiva gestione dei rifiuti prodotti, si intuisce quanto la situazione sia irrimediabilmente compromessa. Infatti, l’87% dei rifiuti mal gestiti (perché scaricati apertamente in natura o smaltiti in discariche incontrollate) sfocia in inquinamento ambientale.
Le microplastiche sono particelle di plastica caratterizzate da una dimensione massima di 5 mm (le misure minime, invece, scendono all’ordine dei micrometri). La pericolosità relativa alla loro ingestione sta nel rischio di poter fungere da contaminanti per l’organismo umano, e non solo. Secondo lo studio “Microplastics in drinking water”, pubblicato quest’anno dalla World Health Organization, le microplastiche rappresenterebbero «una sfida unica alla difesa della salute dell’uomo».
L’approccio alla soluzione del problema, infatti, è assolutamente diversificato, in funzione della forma, della taglia e della composizione delle particelle. Inoltre, sebbene i polimeri che ne sono alla base siano poco tossici, le plastiche potrebbero contenere additivi potenzialmente pericolosi; senza contare che potrebbero essere state contaminate da altre sostanze chimiche presenti in ambiente e, pertanto, diventare ulteriormente rischiose.
Ipotizzando diverse modalità di esposizione al problema, i ricercatori australiani hanno stimato un consumo di plastica vicino alle 100 000 particelle all’anno, che consisterebbero approssimativamente in 5 g alla settimana: l’equivalente di una carta di credito. A cosa è dovuta questa sgradita consumazione? In larga parte all’acqua che beviamo, che è di fatto la massima causa di ingestione di microplastiche (sia essa di rubinetto o imbottigliata). Un’altra abbondante fonte di microplastiche, poi, è rappresentata dai crostacei, che contano per circa 0,5 g a settimana.
L’inalazione, al contrario, contribuisce in maniera significativamente minore. In questo caso, però, a fare la differenza è soprattutto il contesto in cui ci si trova: talvolta l’aria indoor potrebbe essere addirittura più inquinata dell’aria esterna. Questo accadrebbe, ad esempio, in ambienti particolarmente polverosi, in presenza di tessuti sintetici e, peggio, in luoghi scarsamente areati. Si potrebbe quasi dire, comunque, che la plastica sia onnipresente nell’aria che respiriamo: tracce sono state rilevate addirittura in cima ai Pirenei, come riportato nello studio, pubblicato sempre nel 2019, “Atmospheric transport and deposition of microplastics in a remote mountain catchment”, di S. Allen.
Cosa resta da fare? Gli studiosi australiani si propongono di perseverare nella propria ricerca: da un lato nella mappatura della distribuzione della taglia e del peso delle particelle di plastica derivate dai rifiuti; dall’altro, nella definizione di come le microplastiche ingerite interferiscano con la nostra salute (verificando, ad esempio, come le particelle riescano a spostarsi nei tessuti animali). Dal canto nostro, invece, sarebbe meglio contenere il consumo della plastica: il rischio è quello di esserne, inconsapevolmente e nel giro di poco tempo, sopraffatti.
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