Siamo in Basilicata. Precisamente in Val D’Agri, a sud di Potenza, al confine con la Campania. Qui, Eni, nel 2001, ha aperto il Centro Olio Val D’Agri o COVA. Quest’ultimo è il giacimento petrolifero su terraferma più grande d’Europa. Fiore all’occhiello italiano nel mondo da quanto si apprende nello stesso sito della multinazionale.
L’estrazione e lo stoccaggio del greggio avviene su una superficie di 180.000 metri quadri, nella zona industriale di Viggiano. Ogni giorno vengono estratti 80.000 barili di petrolio al giorno, stoccati in parte o trasportati tramite oleodotto alle raffinerie di Taranto. I pozzi attualmente attivi sono ventiquattro. Basti pensare che da questo singolo luogo viene soddisfatto il 10% del fabbisogno nazionale di petrolio.
Sul sito ufficiale Eni si legge che “il COVA ha una capacità di trattamento giornaliera di 104.000 barili (circa 16.500 metri cubi di olio) e di 4.660.000 Sm3 di gas associato al greggio. I tecnici si alternano su 3 turni di lavoro di 8 ore ciascuno, garantendo l’attività del COVA 24 ore su 24“.
Oltre il COVA, o Centro Olio Val d’Agri, Eni gestisce anche l’oleodotto Viggiano-Taranto, la centrale gas di Ferrandina, il centro olio di Pisticci e la centrale gas di Pisticci. Tutte infrastrutture costruite nel territorio lucano.
Da aprile 2017, tuttavia, sono iniziati i problemi. Anzi, sono iniziati ben prima. Stando agli atti giudiziari, tra agosto e novembre 2016, sono state sversate nel sottosuolo lucano circa 400 tonnellate di petrolio. Fu Eni stesso ad ammettere le terribili cifre di quello che potrebbe essere considerato uno dei disastri ecologici italiani più grandi di tutti i tempi. In particolare le fuoriuscite hanno caratterizzato il serbatoio D del parco estrattivo on-shore più grande d’europa. Il COVA è stato, quindi, stoppato da una delibera regionale del 18 aprile 2017, quando ormai la contaminazione aveva già interessato quasi seimila metri quadri circostanti.
Lo stop degli impianti è costato molto caro alla regione lucana. C’è stata una perdita di fatturato da parte di Eni Basilicata che ha influito anche sui 316 dipendenti che lavorano nei diversi pozzi di estrazione. Tuttavia, l’export di petrolio della Basilicata nel 2018 è cresciuto del 50%, toccando quota 222 milioni di euro. Questo valore è più che raddoppiato rispetto allo stesso periodo del 2016: 92,7 milioni.
L’ultima notizia riguarda, però, il risarcimento che la Regione Basilicata chiederà ad Eni. Proprio la regione ha comunicato, tramite i propri legali, che ci sono tutte le condizioni per “un risarcimento di natura economica e ambientale ma anche per ottenere una riparazione delle conseguenze lesive del danno di immagine“. Il risarcimento non riguarda soltanto gli effetti del disastro ambientale, ma anche “la mancata realizzazione delle entrate connesse alle attività estrattive nel periodo di necessitata sospensione che costituisce evidente pregiudizio economico per la Regione”.
Non sappiamo precisamente a quanto ammonterà l’eventuale risarcimento. Sta di fatto che lo sversamento di petrolio greggio c’è stato. E l’ambiente ne ha risentito e ne risentirà per anni, decenni, secoli.
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