Un termovalorizzatore vicino casa? Ma scherziamo? Non vedi tutti i fumi tossici che escono dalla ciminiera? E poi chiamiamolo con il loro nome: inceneritore. Sono solo una scusa per bruciare di tutto, senza controlli. Io sono contrario.
Quante volte abbiamo sentito questi discorsi? Siamo sicuri che il termovalorizzatore sia un problema e non una soluzione? Siamo sicuri di avere alternative valide? Come mai la tecnologia funziona bene in tutto il mondo occidentale, ma in Italia c’è un “muro” fatto di ignoranza, diffidenza e paura?
“People fear what they don’t understand” dice Andrew Smith. E allora vediamo di creare dei presupposti per parlare del termovalorizzatore con chiarezza ed obiettività come abbiamo sempre fatto.
Nel 2016 [dati Ispra] ogni cittadino italiano ha prodotto 496,7 kg di rifiuti solidi urbani (RSU). Le medie regionali variano tra i 550 kg ad abitante al Nord, fino ai 450 kg ad abitante al Sud. Le regioni settentrionali producono più spazzatura, ma ne riciclano anche una grandissima parte. Le percentuali medie regionali di riciclo (vetro, alluminio, plastica e carta) variano tra il 72,9% del Veneto e il 15,4% della Sicilia. La media nazionale supera comunque il 50%.
Si dovrebbe cercare di (1) produrre meno scarti e dovremmo aumentare (2) la percentuale di raccolta differenziata sul totale dei rifiuti. Detto ciò, seppur il Sud e il Centro Italia si adeguassero ai livelli di riciclo del Nord-Est, la media nazionale raggiungerebbe un valore medio di 66,6%. Quest’ultimo rispetta l’obiettivo del 65% fissato da normativa, ma in Italia rimarrebbero comunque 165,6 kg di rifiuti non riciclati a persona. A livello nazionale diventano più di 10 milioni di tonnellate [1] di rifiuti non riciclati per limiti umani e tecnologici.
E quello appena presentato è una lontana ipotesi, un augurio, una speranza. Al momento, in Italia, ci sono più di 16 milioni di tonnellate di rifiuti non riciclati. Cosa ne facciamo?
Al giorno d’oggi le alternative ci sono. Una si chiama discarica. Ancora adesso [dati del 2014], circa il 30% dei rifiuti solidi urbani, molti dei quali selezionati a valle del riciclo, vengono stoccati in discariche. In Germania la percentuale è nei fatti nulla; in Grecia, d’altra parte, è maggiore dell’80%.
Una seconda alternativa valida – per i rifiuti organici, o l’umido – potrebbe essere la digestione anaerobica per la produzione di biogas o di biometano, e quindi energia. Una terza ipotesi è quella di vendere (o regalare) la nostra spazzatura ai paesi vicini così che loro – al nostro posto – possano produrre energia tramite termovalorizzazione.
Partiamo dalla definizione. Inceneritore e termovalorizzatore, oggi, significano la stessa cosa. In Italia si è ritenuto di creare un secondo nome per sottolineare il fatto che bruciare rifiuti senza produrre energia sia ormai illegale.
Detto ciò, entriamo nel merito. A valle della raccolta differenziata, il rifiuto indifferenziato è incenerito in forni a griglia nella maggior parte dei casi e in misura minore in impianti a letto fluido. I termovalorizzatori sono dotati di recupero energetico attuato con un ciclo a vapore, che opera solitamente a temperatura e pressione che sono limitati dalle problematiche di corrosione dei materiali causati dalla combustione di rifiuti. I termovalorizzatori possono disporre anche di un ciclo cogenerativo in cui l’energia termica di recupero è utilizzata per il teleriscaldamento urbano o per altri utilizzi industriali e civili.
Una delle maggiori criticità di questi impianti è la corrosione dei componenti della caldaia causata dalla combustione dei rifiuti urbani, che contengono cloro e metalli alcalini. Ma il problema è facilmente (ma non economicamente) risolvibile con riporti di leghe a base nichel saldati sulle pareti della caldaia. D’altra parte, grazie alla loro flessibilità, gli impianti di termovalorizzazione sono in grado di accettare anche combustibili diversi: ad esempio la biomassa legnosa.
In Italia ci sono 43 inceneritori in funzione, non contando quelli in smantellamento, quelli chiusi e quelli sospesi. Sette dei precedenti sono al sud e nelle isole. Otto al centro Italia. Ventotto al nord. Qui, dove la percentuale di rifiuti riciclati è maggiore, la termovalorizzazione è più utilizzata.
Il trattamento dei fumi prodotti dalla combustione dei rifiuti è attuato da:
Al camino vediamo uscire fumi composti prevalentemente da vapore acqueo e anidride carbonica checché se ne dica; ma tanti altri sono i composti chimici che si formano durante la combustione dei rifiuti urbani, seppur in minime quantità: ossidi di azoto (NOx), ammoniaca, monossido di carbonio, HCl, SO2, carbonio organico totale, particolati. Queste emissioni hanno comunque limiti di concentrazione bassissimi, e lontani da qualsiasi valore di pericolo per l’essere umano e per l’ambiente circostante.
E i migliori al mondo (come sempre) siamo noi. Il termovalorizzatore di Brescia è uno degli esempi più evoluti della tecnologia. In esercizio dal 1998, incenerisce 750.000 t/anno di rifiuti e biomassa, produce 600 GWh elettrici/anno e 800 GWh termici/anno per il teleriscaldamento della città. Nel 2006 ha vinto l’Industry Award come miglior inceneritore del mondo dalla Columbia University, New York. L’efficienza del recupero energetico è del 29% ed è tra le più alte nel settore a livello mondiale.
[1] Nel 2016 in Italia i residenti erano 60 milioni e 650 mila.
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