Nella prima parte dell’intervista al professor Silvano Vergura abbiamo analizzato le caratteristiche principali di una città Smart. Riprendendo quanto citato nel suo nuovo libro “Da smart city a smart community. Opportunità e rischi per la Capitanata”, l’attenzione è stata puntata su sei temi fondamentali. Si tratta di: Smart Economy, Smart Environment, Smart Governance, Smart Living, Smart Mobility e Smart People.
Continuiamo il discorso focalizzandoci su esempi concreti di Smart Cities già esistenti nel nostro Paese. Per quanto detto in precedenza, sono 158 i comuni italiani coinvolti, per un totale di 15 milioni di cittadini.
Una città nella sua interezza Smart non c’è e non è necessario che esista. Alcune città hanno avviato più percorsi parallelamente, altre stanno facendo azioni spot per sondare il terreno. La città di Bergamo ha attivato un sito in cui vengono declinate in ambito territoriale le azioni citate precedentemente. Come Bergamo, anche Lecce e Bari. Lo stesso Politecnico di Bari ha da poco concluso il PON Res Novae, al fianco di partner industriali come Enel e General Electric. In occasione del progetto, Enel ha realizzato a Bari uno show room dal quale è possibile monitorare i consumi di alcuni edifici pubblici messi a disposizione dal Comune come progetto pilota.
Per le pubbliche amministrazioni, l’evoluzione verso lo “smart” è collegata a vincoli normativi di trasparenza nei confronti dei cittadini. Ciò che però caratterizza una pubblica amministrazione che adempie ad un vincolo normativo da una che è realmente in un’ottica di Smart City sta nella differenza tra digitalizzare e informatizzare la pubblica amministrazione. Ad esempio, il comune di Bologna ha una sezione del suo sito web dedicata agli open data. Supponiamo di caricare sul sito i file scansionati di tutti i documenti dei consigli comunali. Quando un cittadino vorrà rintracciare una delibera sarà in grado di rintracciarla? Se egli non conosce la data della delibera, dovrà leggere tutti i documenti alla ricerca del punto di suo interesse. In tal modo, abbiamo digitalizzato i documenti ma non agevolato il rintracciamento dei dati. Il comune di Bologna, invece, ha caricato un file Excel in cui sono inserite informazioni riguardanti i singoli provvedimenti (data, argomento, titolo). Questo significa informatizzare la pubblica amministrazione. Non solo digitalizzare, non solo rendere di dominio pubblico i dati ma renderli facilmente accessibili.
Un caso molto concreto riguarda il comune di Bergamo. L’amministrazione ha reso disponibili gli open data riguardanti gli incidenti stradali avvenuti in città. E’ stato caricato sul sito un file in cui sono elencati gli estremi degli incidenti (data, ora, strada, numero di deceduti e feriti). Un giornalista ha posizionato questi dati su una mappa della città: è risultato che in 3 anni in uno stesso incrocio vi erano stati 70 incidenti. L’amministrazione comunale si è resa conto della criticità e ha cambiato la viabilità dell’incrocio. Nei 6 mesi successivi gli incidenti sono stati pari a zero. Oltre al virtuosismo di evitare feriti e morti, ciò ha consentito un notevole risparmio all’amministrazione: costi sanitari, rifiuti delle auto da smaltire, costi assicurativi, emissioni di gas inquinanti da parte dei veicoli intasati nel traffico…tutti questi costi sono stati azzerati!
Prima di tutto, bisogna fare un’operazione di comunicazione e di informazione. E’ sufficiente spiegare i vantaggi che si ricavano dalla Smart City affinché una persona li comprenda. Perché ciò di cui si parla non è il futuro ma il presente. Quello che però non deve accadere è che ci sia un flusso unidirezionale da parte dell’amministrazione, che imponga obblighi a tutti, indiscriminatamente (ad esempio, obbligando tutti i cittadini al solo pagamento online delle tasse). Lo sviluppo deve invece partire dal basso; devono essere i cittadini a spingere la pubblica amministrazione verso i servizi che si ritengono più importanti. In tal modo, la pubblica amministrazione si preoccuperà dell’infrastruttura informatica, ma il popolamento di dati dipenderà dai cittadini.
Nessuna città può definirsi “smart” se non ha piano di comunicazione, informazione e feedback con i cittadini. Infatti, dare al cittadino un servizio del quale non è a conoscenza è pari a non darlo.
Un esempio lampante è quello di un sondaggio riguardante le competenze digitali e disponibile su una piattaforma messa a disposizione dal Governo. In questo sondaggio si chiedeva ai cittadini di esprimere la propria percezione sui diritti e sulla cittadinanza digitale. La scadenza era il 27 maggio 2017 (open.gov.it/questionario-online-sui-diritti-la-cittadinanza-digitale/). Chi era a conoscenza della possibilità di compilare questo questionario? Sono curioso di sapere quanti italiani, degli oltre 30 milioni collegati ad internet, erano a conoscenza del questionario e lo hanno compilato.
Uno dei principali motivi per cui ho deciso di scrivere questo saggio divulgativo è la necessità che i temi della Smart City non restino chiusi all’interno di una cerchia di persone super esperte. Non va bene che si continui ad approfondire la conoscenza su un tema, senza che i primi risultati arrivino agli stakeholder. Infatti, più aumenta la conoscenza senza diffonderla e senza comunicarla, più aumenta il gap tra chi ne sa molto e chi ne sa poco o nulla. Più ciò accade, più si finisce con il sentire distante l’oggetto della questione. C’è bisogno, invece, di un trasferimento di informazioni, che renda fruibile, anche con un linguaggio accessibile a tutti, questo bagaglio di conoscenze. Le Smart Cities devono crescere dal basso e non in maniera unidirezionale. Affinché i cittadini partecipino attivamente, essi devono essere messi a conoscenza di temi, opportunità, rischi e implicazioni, affinché diventino protagonisti della propria smart city, senza subirla.
Per saperne di più, vi ricordiamo del nuovo libro del prof. Vergura “Da smart city a smart community. Opportunità e rischi per la Capitanata”
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