Articolo a cura di Carlo Maccioni
Quando si cerca di sfruttare una risorsa energetica uno dei primi parametri che si punta a massimizzare è senza dubbio l’efficienza del processo realizzato. Nel campo delle energie rinnovabili questo fattore generalmente ha valori molto bassi, basti pensare al solare fotovoltaico, dove l’intero processo di conversione raggiunge efficienze stimabili intorno al 15%, tralasciando dettagli come l’orientamento dei pannelli o la zona di installazione. L’eolico ha un limite teorico stabilito dalla teoria di Betz, pari al 59,3%, oltre il quale non si riesce ad andare, ma a livello pratico ancora siamo lontani da tale limite.
Le fonti rinnovabili sono, per definizione, sempre disponibili, dunque un errore che si commette spesso è quello di trascurare l’efficienza di conversione dei sistemi conosciuti fino a ora.
Se però si applica un’analisi sull’efficienza dei sistemi a fonti fossili tradizionali, il discorso diviene particolarmente rilevante. Dovendo conviverci ancora per un discreto periodo di tempo, è bene fare in modo che siano quanto più sostenibili possibile da un punto di vista ambientale. Un impianto che produce energia elettrica, se lavora con elevate efficienze avrà bisogno di minori quantità di energia primaria, dunque inquinerà di meno e risulterà meno impattante per l’ambiente.
Un esempio dell’applicazione di questo tipo di logica sono gli impianti cogenerativi o quelli a ciclo combinato. Nei primi infatti generalmente si procede al recupero del calore di scarto prodotto da un determinato processo, per poi riutilizzarlo nella gran parte dei casi in sistemi di teleriscaldamento. Nei cicli combinati invece il calore di scarto viene utilizzato in impianti a vapore per la produzione di un surplus di energia elettrica rispetto a quella prodotta dall’impianto primario. Questi utilizzi sono però vincolati alla disponibilità di un flusso termico di scarto a una temperatura medio-alta.
Se però, si ha a disposizione del calore a bassa temperatura, diventa interessante approfondire un sistema noto da tempo, ma solo negli ultimi anni in rapida evoluzione, cioè gli impianti ORC (Organic Rankine Cycle). La tecnologia ORC si basa sull’esecuzione di un ciclo Rankine, anziché attraverso il classico vapore d’acqua, mediante fluidi organici in grado di evaporare a basse temperature e alla pressione atmosferica.
Questo consente il recupero di calore di scarto da processi industriali (WHR, Waste Heat Recovery) a bassa temperatura, che normalmente non si presterebbe a particolari utilizzi, oppure l’accoppiamento con pozzi geotermici a bassa entalpia, che hanno una dinamica simile a quella dei WHR.
Ipotizzando di trovarsi nel caso di un WHR, e facendo riferimento alla figura, nel processo accade quanto segue:
In questo caso l’obiettivo primario è il raggiungimento della massima efficienza. Problema principale risiede nella gestione del pinch point durante l’evaporazione, che rende difficoltoso far uscire il fluido termovettore con una temperatura vicina a quella di condensazione, cosa che sarebbe invece ideale per un’elevata efficienza. La tendenza a ridurre il più possibile le irreversibilità ha tuttavia dei limiti, generalmente si cerca di ridurre il più possibile il pinch point ma se questa riduzione risulta eccessiva, si arriva a un aumento delle superfici di scambio spesso inaccettabile.
Si prenda il caso di ORC accoppiato con un sistema geotermico. La tecnologia ORC può essere impiegata in accoppiamento a fonti geotermiche a medio-bassa entalpia ad acqua dominante. Di particolare interesse sono i cicli binari, spesso adottati con fonti a bassa temperatura (<150°C), grazie alla loro semplicità realizzativa e ai conseguenti costi ridotti. Altro particolare rilevante è l’assenza di emissini di gas serra in atmosfera, cosa che rende questi impianti poco impattanti dal punto di vista ambientale, le uniche emissioni che si hanno sono quelle al condensatore, di origine termica. In letteratura vi sono alcuni esempi di dimensionamento, ma non particolarmente dettagliati. Ruolo cruciale è infatti esercitato dalla composizione chimica dell’acqua, che determinerà le temperature in gioco, rendendo i criteri di dimensionamento poco standardizzabili.
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